Ciao a tutti e, come sempre, buongiorno o buonasera a seconda dell’ora in cui mi leggerete! 🙂
Come state?
Io sono piĂą pensierosa del solito a causa delle notizie diffuse dai telegiornali in questi giorni: femminicidi, violenze perpetrate nei confronti delle donne e via dicendo.
Mi sono ritrovata a pensare a quando, durante la mia adolescenza, mi capitava di essere settimanalmente infastidita (ma forse sarebbe piĂą corretto dire molestata) da ragazzi o uomini, prevalentemente stranieri, con i tanto tristemente famosi “sciao bella”, fischi dalle auto, “dove stai andando tutta sola?”… insomma, ciò che ora è categorizzato come “catcalling”.
E ancora la mente è volata a quando, all’età di 14 anni, sono stata seguita da un uomo dall’uscita di casa mia fino alla fermata del pullman che mi avrebbe portata a lezione di danza. E’ stato terribile: seppur nell’ingenuità tipica di quell’età , mi sono subito resa conto di quello che stava accadendo e, per averne una conferma, ho provato a cambiare lato del marciapiede venendo, puntualmente, seguita.
Il battito accelerato, il respiro veloce, sudori freddi lungo la fronte.
Mi sono recata, cercando di non accelerare il passo, alla fermata, dove c’era parecchia gente e ho aspettato con ansia che il bus arrivasse, sperando che l’inseguitore non scegliesse di salire a sua volta. Per fortuna, al termine di un’attesa estenuante, il pullman è arrivato e, con somma gioia, mi sono resa conto che l’inseguimento era finito.
Perché ricordare oggi, più di 15 anni dopo, questo evento?
Perché la vittima posso non essere più io, ma il problema non è stato risolto.
Ma, come promesso, la mia missione non è quella di girare il coltello nella piaga ribadendo il racconto di storie di violenza, bensì quello di generare speranza, cercando di contribuire ad una visione positiva del mondo che ci circonda.
Luglio 2023: 16 anni dopo l’inseguimento, stesso quartiere di Torino.
La protagonista di questa storia sono di nuovo io, intenta a raggiungere di corsa la fermata del pullman, questa volta, però, per tornare a casa. Insomma, la situazione al contorno è molto simile a quella descritta poche righe fa (“stessa storia, stesso posto, stesso bar…”).
Lo sviluppo, tuttavia, è ben diverso.
Nell’affrettarmi a raggiungere la fermata a causa dell’imminente arrivo del tram, inciampo nel bel mezzo di un attraversamento pedonale, cadendo con tutto il peso del mio corpo e del pesante zaino contenente il PC aziendale sull’asfalto di un corso trafficato.
Avverto un dolore lancinante al gomito destro.
Non riesco a rialzarmi.
All’improvviso sento avvicinarsi rapidamente dei passi ed una vigorosa stretta al braccio sinistro, che cerca di rialzarmi per mettermi al sicuro dall’imminente arrivo delle auto, a causa del sopraggiunto semaforo verde.
Mi volto e scorgo un signore di mezz’età , nord africano, che indossa una t-shirt blu riportante il brand di una catena che recentemente è stata oggetto di questioni legate allo sfruttamento dei dipendenti.
“Come stai? Ti sei fatta male? Riesci a muovere il braccio?”
“Ho male ma, sì, lentamente riesco a muoverlo. GRAZIE!”
“Grazie per quale motivo? L’importante è che stai bene”.
In quel momento, non posso fare a meno di riflettere sulla gentilezza di uno sconosciuto, un cittadino extracomunitario, che ha scelto di offrirmi aiuto in un momento di estrema vulnerabilitĂ , invece di proseguire indifferente sul marciapiede sicuro.
Oggi, ho deciso di condividere due episodi che coinvolgono me e un cittadino extracomunitario nel cuore del quartiere “Barriera di Milano” di Torino (per chi non lo conoscesse, è considerato tra i piĂą malfamati della cittĂ ).
Un ricordo che sottolinea come il futuro non debba necessariamente replicare il passato.
Due situazioni così simili eppure così diverse, che ci invitano a riflettere.
Un abbraccio,
Elisa